ciao a tutti,
ravanando nei meandri di un vecchio hard disc ho ritrovato questo racconto di 3/4 anni fa che scrissi sognando una triumph bonneville che non potevo permettermi di comprare.
rileggendolo oggi mi ha fatto sorridere soprattutto perchè quando lo inventai mai e poi mai pensavo che prima o poi sarei riuscito a comprarmela.
voglio condividerla con voi sul forum invitandovi a pensare alla vostra infanzia e a quando la moto (non necessariamente triumph) vi ha preso il cuore
è un pò lungo e pieno di errori, ma non ho voluto risistemarlo perchè l'ho scritto di getto e preferisco lasciarlo così com'è.
Dieci anni.
- Gomme?-. - Ok. - Bene. Catena?-. - Ok.
- Bene. Hai regolato la tensione vero? -. - Si...No...cioè...Si, -
- Si o No? -. - Cioè...Si, -
- Ok...mmm...Benzina? -. -Ok.- Bene...mmm...patente e documenti di viaggio?-. -Cioè...Non lo so...cioè...Credo di sì, -
- Va bene. Scherzo. Li ho io quelli, -. - Ha ha ha...cioè...sì...ha ha ha...che
scherzo...cioè...-
- Tutto Ok, allora vado...fammi gli auguri -. Il mio migliore amico annuisce
orgoglioso e si fa da parte per farmi uscire dal garage.
Sono passati dieci anni da quando ho deciso di partire da questo paese
inospitale delle campagne romagnole per raggiungere la civiltà.
La campagna è bella ma noiosa. E cʼè sempre puzza di letame. Mi fa schifo
il letame. Bè, cioè, a chi non fa schifo? - Ma tu vivi in campagna, sei abituato
al letame - Dicevano le mie compagne di classe alle medie. - Col cazzo ! -
rispondevo io grezzo, suscitando le risate dei miei amici, che raramente si
schieravano dalla mia parte per aiutarmi, timorosi di essere etichettati come
selvaggi dalle ragazzine educate che dividevano con noi la seconda media.
-Un giorno me ne andrò via da questo schifo di paese e allora vedrete,-
sentenziavo io, serio, facendo quasi sempre sbellicare dalle risate anche le
ragazzine più educate. Queste situazioni si ripetevano spesso durante le
settimane e negli ultimi anni diventavano quasi quotidiane. Mi ero talmente
abituato a far ridere i miei compagni che questi, spargendo la voce alle altre
classi, organizzavano dei veri e propri incontri per farmi sempre dire la stessa cosa:- Un giorno me ne andrò via da questo schifo di paese e allora vedrete,- E giù risate.
Qualche volta in mezzo ai ragazzi si fermava anche qualche
maestra che senza dare troppo nellʼ occhio ascoltava le mie parole e
ghignava sottovoce sicura che non me ne accorgessi. In terza media la cosa
era diventata quasi una consuetudine. Nellʼ intervallo cʼerano adulti e bambini
che si affacciavano nella mia aula e aspettavano che parlassi. Qualcuno mi
indicava anche con il dito. Cosa che ritenevo essere molto maleducata. Poi
da lontano una voce si alzava e faceva: -Ma tu vivi in campagna, sei abituato
al letame - E giù risate. Poi silenzio. Tutti mi guardavano trepidanti, in attesa che io dicessi: - Col cazzo ! - Un boato di risate si levava dai corridoi.
Poi qualche maestra diceva:
- Dai, ti prego, dicci cosa farai da grande, -. Io senza farmi pregare
rispondevo: -Un giorno me ne andrò via da questo schifo di paese e allora
vedrete,- Qualcuno arrivava addirittura a piangere dal ridere e io mi ero
quasi abituato a tutto questo che un giorno aggiunsi: - Un giorno me ne
andrò via da questo schifo di paese e allora vedrete...chi è il più coglione! -
Nessuno rise. Poi la folla si disperse e tutto tornò alla normalità. Fu lʼultima volta che dissi quella frase.
Ma mi ricordai bene quello che successe subito dopo.
Ero davanti al mio banco quando sentii la sua voce: - Hey tu...- Mi
voltai e la vidi. Era la Comanducci Ester. La più bella della scuola. Era
qualche centimetro più alta di me e i suoi capelli avevano lo stesso colore
dorato dei candelabri della chiesa di Don Edero. I suoi genitori erano
molto ricchi. La sua famiglia possedeva tutte le edicole del paese e le
compravano sempre i vestiti più eleganti. Molti miei compagni mi dicevano
che se la Comanducci Ester ti guardava, anche solo per sbaglio, per te la
vita sarebbe cambiata. Avresti avuto lʼammirazione di tutti e le ragazze
sarebbero cadute ai tuoi piedi come pere cotte. Io avevo fatto di più. O
almeno stavo per fare di più. La Comanducci Ester stava per parlarmi.
Nessuno mi avrebbe più preso in giro e nessuno al mondo avrebbe più
osato ridere in mia presenza. Adesso era lì solo per me e avrebbe cambiato
la mia vita. La guardai negli occhi. Le sue labbra sembravano petali di rosa
delicatamente inumiditi dalla rugiada del mattino. Nei suoi occhi vedevo il
riflesso del mare, lontano da qui centinaia di chilometri. Il suo odore mi
riempiva le narici. Aveva quel buon profumo di bucato appena stirato. Era a
pochi centimetri dal mio viso. Lo stomaco mi si era aggrovigliato e mi ero
scordato di respirare. - Hey tu...eri serio quando dicevi che volevi andartene
da questo paese? -. La guardai negli occhi. Mi capiva. Sentivo le lacrime
che rigavano le mie guance come due torrenti. Rilassai le spalle e sentii
lʼodore del mare attraverso il suo sguardo. Con la mano le scostai un
ricciolo ribelle dal viso, sorrisi e le risposi: - Si -.
Rise talmente forte che tra un singhiozzo e l’altro scorreggiava come la moto scarburata del postino del paese. Questa a sua volta fece partire un crescendo di risate intorno a noi che in pochi attimi si trasformò in un boato di grida e pianti di ilarità che non mi sarei mai aspettato.
Entro un minuto rideva tutta scuola. Cazzo.
Rideva anche il cane del custode. - Maledetto cagnaccio - Pensai. - Io che ti
davo anche metà della mia cotoletta - . La mia breve vita mi passò davanti
agli occhi come un film in Super8, cioè fotogramma per fotogramma con delle inquadrature storte e altre bruciacchiate.
Il preside decise, sghignazzando dietro al registro, di chiudere la scuola per qualche giorno, ufficialmente per far passare la ridarella che ormai stava dilagando anche al vicino collegio.
In quel momento presi la decisione più importante della mia vita. Dissi a me
stesso: - Tra dieci anni esatti da oggi a questʼ ora, me ne andrò via da questo schifo di paese, .
Oggi sono qui. Sono passati dieci anni esatti da quel giorno. Tra due minuti
esatti salirò sulla mia motocicletta e partirò senza voltarmi indietro.
La mia famiglia è tutta in strada per salutarmi.
Qualcuno forse è venuto solo per vedere se me ne vado veramente o è uno scherzo. Sono serio.
Ho lasciato la scuola e ho cominciato a lavorare dieci giorni dopo quello
che era successo con la Comanducci Ester e lʼesame di terza media lʼho
fatto alle scuole serali alle quali mi ero iscritto insieme al mio amico Loris, che era stato obbligato dal padre a frequentare anche la sera per farlo diventare più velocemente impiegato nel negozio di motociclette di famiglia.
Loris era un genio della meccanica. Smontava e rimontava un motore ad occhi chiusi e con le mani dietro alla schiena senza sbagliare una virgola. Senza perdere una vite o una molla. Distingueva un tipo di lubrificante dall altro solo sentendone il sapore con la punta della lingua. Era il mio migliore amico. Era lʼunico a non ridere quando tutti ridevano e non solo perché era dʼaccordo con me, ma anche perché era mezzo sordo. Il padre, già quando era nella culla, lo metteva vicino alle marmitte delle sue bicilindriche e apriva il gas a tutta manetta per- diceva lui- abituarlo a distinguere il suono delle Triumph dal motore Harley a, chennesò il Guzzi dal rombo delle Norton.
Il padre di Loris amava definirsi un buongustaio. Per lui le moto giapponesi non esistevano e non erano mai esistite. Se solo provavi a dire: - Honda! - rischiavi seriamente di essere preso a frustate con la catena che teneva sempre appesa alla cintura. Conobbi lui e tutta la famiglia un giorno di primavera.
Un giorno presi i miei risparmi e andai dal padre di Loris. Erano solo
centomila lire, ma dissi : - Signor meccanico, vorrei una moto ...per favore - Lui mi guardò e pianse. Poi mi disse, carezzandomi la testa: - Ragazzo. Con centomila lire non ci compri nemmeno un cazzo di fanale,-
Ma mi piace come ragioni e voglio aiutarti. - Ti presento mio figlio Loris, non sente un cazzo ma è un bravo meccanico...Loris, cazzo...vieni qui.-
Loris era sordo e non sentiva il padre, così questo dovette tirargli una chiave inglese nella schiena per attirare la sua attenzione. Cosa che gli riuscì alla perfezione. - Ragazzo,- mi apostrofò: Se aiuterai mio figlio nel suo lavoro quella moto laggiù un giorno sarà tua, - Guardai nella direzione che mi aveva indicato ma vidi solo un ammasso di ferraglia buttata in terra. - Mi scusi signor meccanico, ma io vedo solo dei rottami del cazzo,-.Dissi per fare il duro. -Bada a come parli ragazzo...quei rottami sono una Triumph Bonneville del 1959. La Signora Motocicletta Cazzuta con la L, la S, la M e la C maiuscole. - Ma...mi ci vorranno...dieci anni per sistemarla...-. Loris e suo padre mi sorrisero e in quel momento capii.
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