OT
ciao antonietta!
io l'ho fatto per qualche tempo e ne approfitto per allegare una cosa che avevo scritto quando scrivevo racconti di treno... che credo dia l'idea dell'affetto che lega gli uni agli altri.
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Odio incontrare gente in maniera casuale. Gente che conosco, intendo. Che conosco poco, è meglio dire. Perché incontrare gli amici, anche se non sei preparato, fa sempre piacere. Si ride, si sorride e si parla di cose belle con naturalità. Con la gente che conosci poco e non frequenti mai tutto questo non può succedere. Con loro, dopo gli innumerevoli come va, allora tutto bene, che ci fai in giro, eccetera bisogna inventarsi qualcosa da dire. E raramente si diranno cose interessanti, che rimangono impresse, che cambiano la giornata.
Cosa ben peggiore è quando un conoscente, per scartare l’imbarazzo o per dividerlo equamente, ci presenta un suo amico. Piacere qui, piacere là, ma quale piacere? Non ci vedremo mai più in vita nostra e se ci vedremo faremo finta di non conoscerci. O almeno, io di solito faccio così.
Arrivando al dunque, qualche anno fa in treno mi capita questa cosa. Incontro sul 1077 della sera un ex-compagno di liceo (a cui non rivolgevo la parola a scuola, figuriamoci adesso). Obbligatoriamente mi fermo e dopo i come va, che ci fai a Milano, eccetera, ecco che scarica il barile alla sua amica. Una tizia mai vista, dall’aria pure antipatica. “Ti presento Simona, vi conoscete già?”
No, mai vista prima d’ora e ne facevo volentieri a meno, penso io mentre dico “Sì, forse ci siamo già visti qualche volta in treno…”
Il mio ex-compagno di classe si solleva totalmente dall’incarico di mediatore, apre Quattroruote e scorre la lista dei 4x4.
Un odio profondo mi scuote il cervello, vorrei prenderlo a calci nel culo. Allora, questa Simona fa finta di sistemarsi sul sedile, poi rovista nella borsa a caccia del cellulare, oggetto a cui ci aggrappiamo spesso per cavarci da una situazione difficile.
E io, contrariamente al mio solito protocollo, la sorprendo. Sono in ballo e allora balliamo.
“Che fai di bello a Milano?” le chiedo sfrontato con il più falso degli interessi. Lei timidamente mi risponde che fa l’assistente universitaria, da poco però perché si è laureata in filosofia due anni fa. “E tu? Studente o lavoratore?” mi chiede, giustamente, per togliersi di dosso il peso, ma con un lieve sorriso perché la formulazione della domanda è inusuale.
“Lavoratore, da poco, anche se ho qualche mesetto di insegnamento alle spalle, roba precaria, naturalmente. Mentre finivo l’università…” Una risposta complessa, la mia, che poteva limitarsi a chiudere sul tipo di lavoro. Invece ho deciso di fornire qualche informazione in più, chissà perché…
Mentre la tizia preme alcuni tasti sul cellulare, controllando il display, mi chiede svogliatamente “Dove hai insegnato di bello?”
E qui tutto crolla. Come posso spiegare quello che facevo senza impiegarci mezz’ora? Voglio leggere il mio libro e scomparire da questa situazione demenziale.
“Facevo l’insegnante di sostegno in una scuola difficile.” Ma che cosa ho detto? È ovvio che questa affermazione attirerà ulteriori domande. Intanto sfoglio il libro alla ricerca del segno.
La tizia, dal suo tono di voce, adesso mi sembra quasi obbligata a continuare. “Scuola difficile? Che intendi dire?”
Io taglio con un “Sì, una scuola media in un posto un po’ particolare.” Sperando di troncare questo ripugnante cordone ombelicale. E invece no. Si scomoda persino il mio ex-compagno di liceo.
“Posto particolare? Tipo Bronx? Scusa, ma allora ci devi raccontare qualche aneddoto.” E lei infierisce “Dai, adesso siamo curiosissimi…”
“Aneddoti? Perché? Mah, non so… niente di particolare… solo ragazzi un po’ agitati, che magari ogni tanto alzavano le mani.” Mentre parlo mi rendo conto che non c’è più imbarazzo. Anzi, mi è venuta voglia di parlare adesso. Voglio inondarli di parole, di esperienze, di tutta la sofferenza che ho visto, di tutte le storie raccapriccianti che ho sentito. Voglio che anche loro, brutti bastardi, provino quello che ho provato io in quei mesi. Voglio che sentano l’odore di quella classe, di quei banchi, del gesso e della lavagna, voglio che sappiano tutto. Voglio che si rendano conto che noi siamo fortunati, siamo dei privilegiati. Voglio che sappiano che c’è gente che sta male davvero, proprio dietro casa nostra. Così, in una scarica inconsueta di adrenalina, racconto un episodio, non proprio terribile, ma impressionante nel suo svolgimento.
“Insomma, era pomeriggio, poco prima delle vacanze estive. Era il momento delle attività extra-scolastiche. Stavo facendo il vigile nella sala computer. Oddio, computer… erano tre rottami con schermo in bianco e nero, ma quei bimbi ci andavano pazzi. Era il giorno prima che me ne andassi. Avevo trovato un lavoro stabile finalmente. Tutto tranquillo. Entrano due ragazzini nell’aula. I miei preferiti, Shuster e Ince. Li chiamavo così perché uno era alto e biondo come un tedesco, l’altro era interista e aveva sempre la maglia di Ince. Anche Shuster e Ince, lo so, a loro modo mi volevano bene. Così cominciamo a chiacchierare, a scherzare e a un certo punto mi rendo conto che di lì a poco non li avrei più visti.
Perché io me ne stavo andando da lì. Non ci sarei più tornato in quella scuola di merda, capite? Quindi penso a questa cosa, e mi rattristo perché comunque io a quei due gli volevo davvero bene. Quel posto lo odiavo ma in quel momento cominciava a mancarmi. Così glielo dico. Gli dico «Oh, sapete che da domani non ci vediamo più?»
«Cazzo dici - mi fa Shuster - non torni dopo l’estate?»
«Eh, mi sa di no, ragazzi. Ho trovato lavoro. Perciò non torno più a lavorare qua.»
Questi due pazzi, allora, si sono resi conto che mi avrebbero perso. Hanno cominciato a demolire la stanza a calci e pugni. E io non riuscivo a dire niente. Riducevano a pezzi i banchi e io stavo lì a guardare come un coglione, come quando si assiste all’eruzione di un vulcano, no? Che puoi fare contro un vulcano? Stavo lì imbambolato a guardare. Come se quello che stavano facendo fosse la cosa più giusta. E questi che spaccavano tutto, sedie, finestre, lavagne, tutto. Ricordo Shuster tutto rosso in faccia mentre sfasciava a pedate il ripiano di un banco e Ince che lanciava una sedia contro una vetrata. Poi si sono guardati intorno, hanno ripreso fiato e se ne sono andati senza dire nulla. Gli altri ragazzini che stavano ai computer erano già scappati dal terrore. E io stavo lì da solo nell’aula, a bocca aperta. Faceva un caldo pazzesco. Non ci potevo credere. Non me lo scorderò mai.”
Il mio ex-compagno di liceo mi ha sorriso e ha inarcato le sopracciglia. Ho guardato per un attimo fuori dal finestrino e poi ha continuato a leggere Quattroruote. La tizia ha risposto al telefono e ha parlato tutto il tempo. Io mi sono immerso nel mio libro. Sentivo caldo, un caldo tremendo. Poi mi sono calmato e forse mi sono addormentato.
***
fine OT
