Post Avv.Elena Nittoli
Titolo:La frode del deferimento post postem e la risposta a Sandulli
Più che un suggerimento adescante, nell’invito di Palazzi alla rinuncia del termine prescrizionale era insito un inganno: la frode del deferimento post mortem.
Perché, in effetti, a questo paradosso siamo pervenuti.
Il dilemma, cioè, non è tanto ‘accettare’ o ‘non accettare’ i vantaggi derivanti dalla prescrizione. Il punto è, innanzitutto, poterlo fare.
Giacinto Facchetti, l’uomo per il quale lo zelante Procuratore federale ha profuso il maggior rigore inquisitorio, non ha in realtà facoltà di scelta. Non può godere, il Cipe, della possibilità di avvalersi della prescrizione, ma neppure rinunciarvi.
E così facendo, gli è stato negato il diritto di difesa nel processo: gli è stata impedita quell’inviolabile garanzia, invece concessa anche ai criminali più incalliti.
Quella facoltà costituzionalmente prevista, il diritto di difesa, il cui uso è stato sin qui perpetrato anche dall’illustre imputato Moggi, per il quale tale diritto è giunto perfino a tradursi nella sua degenerazione: l’abuso. Perché abuso è, infatti, la sua pretesa di voler azzerare proprie le responsabilità attraverso il ricorso al surrettizio teorema del ‘tutti colpevoli, nessun colpevole’, equazione in realtà sconosciuta ai codici ed ai principi di diritto. Statene certi: una siffatta teoria non esiste sui manuali di legge. Abuso è finalizzare la propria strategia defensionale nell’intento catalizzante di screditare le proprie vittime. Eppure, viene riconosciuto come diritto di difesa anche quello, a quanto pare: inviolabile, imprescindibile e costituzionalmente garantito.
Già, ma allora, quale diritto di difesa è consentito al Cipe?
Perché, di certo, le accuse non gli sono state certo risparmiate. Tutte, peraltro, inspiegabilmente esasperate nella portata accusatoria per stessa ammissione di Palazzi, visto che costui già anticipa nella relazione che la sua ricostruzione dei fatti, estremamente rigorosa in senso accusatorio, subirà, presumibilmente, una derubricazione in ipotesi non contemplanti l’illecito sportivo.
Derubricazioni che non potranno, però, avere mai concreta attuazione.
Ma, allora, perché tutto questo? Perché non arrestarsi prima, nei confronti di Giacinto?
Non si tratta, in realtà, di invocare un rispetto che sarebbe stato dovuto al defunto come pietà etica (a proposito di etica…); la questione, semmai, anche in questo caso è ‘tecnica’ e direttamente collegata al diritto di difesa. Già, quello riconosciuto anche ai criminali più incalliti.
Diritto di difesa significa ‘facoltà di esplicare ogni forma di tutela garantita dall’ordinamento all’interno del processo’, ivi compresa, dunque, la facoltà di avvalersi della eventuale prescrizione. Che resta, appunto, un fatto procedurale attinente ad un piano subalterno rispetto al merito del giudizio: ecco perché l’imputato può anche rinunciarvi. Beninteso, sempre che possa umanamente farlo. Dunque, la prescrizione rappresenta solo una facoltà, non invece una mannaia ineludibile, una condanna a vita, che offende la memoria di un uomo morto.
Esiste, per questo, un rapporto di pregiudizialità fra le varie pronunce: la declaratoria di estinzione del processo per intervenuta morte dell’interessato precede ogni accertamento nel merito, posto che, di fatto, lo impedisce. Nel caso di Giacinto Facchetti, questo è stato inspiegabilmente disatteso dal Procuratore.
‘Precede’ significa, dunque, ‘impedisce’. Ma, allora, la pronuncia di ‘intervenuto decesso’ avrebbe dovuto precedere e quindi impedire anche, a maggior ragione, una formulazione dei capi di incolpazione come quella che, invece, il buon Palazzi non ha inteso lesinare al Cipe. A maggior ragione, perché da essi l’incolpato non potrà mai difendersi.
Capi di imputazione che non saranno, perciò, seguiti da deferimento per l’intervenuta prescrizione (cui l’imputato non potrà, suo malgrado, neppure rinunciare). Ma che non potranno mai essere confutati nel merito.
E’ qui che sta il gioco malefico: Giacinto è stato condannato senza potersi difendere, quando nei suoi riguardi v’era l’obbligo di dichiarare l’estinzione del procedimento per intervenuto decesso. E basta.
Non esiste diritto senza che sia contemplata anche la facoltà di rinunciarvi. In questo modo, invece, non è stato concesso a Giacinto Facchetti il diritto di poter beneficiare della prescrizione, ma gli è stato coattivamente imposto l’obbligo di subirla, come un marchio d’infamia. A Giacinto è stato dunque negato il diritto di difesa.
Al danno, poi anche la beffa: il suggerimento adescante rivolto all’Inter, fra le righe della relazione, alla rinuncia del termine prescrizionale per affrontare il giudizio è in realtà uno specchietto per le allodole, visto che nessun giudizio discolpante sarà mai possibile per Giacinto.
Questa è la prova dell’inganno fraudolento…
Per quanto riguarda il parere dell’avvocato Sandulli espresso ai media secondo il quale la revoca è possibile espresso con l’autorevolezza del nome e la qualifica indubbia di chi lo porta, resta pur tuttavia opinabile (come ogni questione giuridica, peraltro).
Almeno, questo è quanto chi scrive si permette di sostenere: sommessamente, ma con l’assoluta convinzione delle proprie asserzioni.
La natura vincolata dell’atto resta la chiave interpretativa.
Conosciamo tutti l’art. 21 quinquies della legge 7.8.1990 n. 241, in tema di autotutela: ma la possibilità di rivisitare e quindi revocare in autotutela una decisione ‘nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario’ presuppone, appunto, (lo si capisce chiaramente dalla lettera della norma) che una previa valutazione a suo tempo fosse stata presa, o che una situazione di fatto (e non, quindi, una situazione di diritto: si noti bene la differenza, che è fondamentale) abbia determinato la conseguente assegnazione del titolo.
Assolutamente diverso quanto accadde nel 2006: furono le norme NOIF e, segnatamente, l’art. 49/1 a determinare l’assegnazione automatica.
Nel percorso esegetico ricostruibile chiaramente nel parere dei tre saggi, infatti (che -si ribadisce- non assegnarono lo scudetto 2006 motu proprio, né altrimenti ciò fece il Commissario Rossi), è chiaro il distinguo fra assegnazione, quale conseguenza automatica dell’applicazione delle leggi vigenti (è il caso dello scudetto 2006) e non- assegnazione quale frutto di decisione (trattasi dei campionati 1927 e 2005) in questo caso sì revocabile).
Il parere espresso non tiene, inoltre, conto di un rilievo che ogni giurista non può non considerare insormontabile: l’impossibilità di valutare circostanze afferenti a campionato diverso (2004-2005) per il campionato che si vorrebbe sanzionare. Ciò sarebbe davvero contrario ad ogni principio di diritto e di buon senso.
Mi spiace -per chi dissente, pur con tanta autorevolezza- ribadire che la legge è dalla parte dell’Inter.
Ed infatti, solo per questo si invoca l’applicazione di criteri politici che ad essa si auspica possano sfuggire.
Ma anche questo, in realtà, sarà impossibile.