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Spesa e tasse: le 2 lezioni per cui Uk con Cameron cresce più di tutti in Ue
di Oscar Giannino
Sorpresa, il leone della crescita nell’Unione Europa non è affatto la Germania di Angela Merkel, che ha chiuso il 2013 con un deludente e modestissimo più 0,4% del suo Pil, ma il Regno Unito di David Cameron. Che ha vissuto un 2013 di continua progressione delle stime: a inizio anno tutti predicevano un modesto più 0,6 o 0,7%, ma di trimestre in trimestre le cose sono andate sempre meglio. Se ancora a dicembre i più immaginavano una chiusura d’anno a più 1,4%, la crescita fortissima dello 0,8% nel solo ultimo trimestre potrebbe aver fatto chiudere il 2013 a più 1,9%. Un punto e mezzo più della Germania.
La tendenza è stata confermata dalle prime stime di crescita 2014 del Fondo Monetario. Il Pil 2014 della Gran Bretagna è stimato a +2,4%, un punto più di quanto il Fondo valutasse a metà dell’anno scorso. La Germania non andrebbe oltre il +1,6%. L’Italia, per capirci, vede invece il FMI abbassare ulteriormente le sue previsioni, dallo 0,7% allo 0,6%: la metà di quanto il governo Letta abbia stimato nella sua legge di stabilità, l’1,1%. E siamo l’unico tra i Paesi “avanzati” corretti al ribasso, l’”unico a non tenere il passo”, dice il FMI. Un viatico, per Letta e il suo governo.
D’accordo, le previsioni vanno prese con le molle. Per esempio a metà 2012 il FMI stimava per il 2013 al 5,6% la crescita del commercio mondiale – il motore dello sviluppo planetario – e poi nella realtà è stata a malapena del 2,7%, il che getta qualche ombra anche sulla correzione in rialzo al 3,7% per la crescita mondiale 2014, visto che nel frattempo la stima di aumento del commercio scende dal più 4,9 al più 4,5%. Quel che però è evidente è che il Regno Unito ha stupito tutti, la frenata tedesca è stata più forte di quel che ci si aspettasse, mentre noi purtroppo arranchiamo in fondo.
Su che cosa di fonda, il successo britannico? Su un mix che per noi non è né integralmente né largamente replicabile, visto che ci sono almeno tre caratteristiche dell’economia britannica molto diverse dalle nostre. Ma ci sono però anche un paio di lezioni secche e buone anche per noi italiani, e per tutto il Sud Europa piegato dalla crisi.
Vediamo innanzitutto che cosa non possiamo ambire di replicare. E’ ovvio innanzitutto che il Regno Unito si avvantaggi della scelta – saggia, alla prova dei fatti – di aver mantenuto la sovranità monetaria e la sterlina. Non solo ciò consente di poter compensare momenti bassi del ciclo con svalutazioni del cambio, ma ha evitato un impatto disastroso della crisi a un’economia che dagli anni Ottanta ha sempre più accentuato la seconda scelta che non possiamo seguire. Quella di diventare un leader mondiale come piattaforma dei servizi, innanzitutto quelli banco-finanziari. Le crisi a raffica di grandi istituti bancari britannici dopo il crac Lehman avrebbero avuto impatti devastanti, se fossero stati curati con i caotici criteri europei. La terza caratteristica che ci divide dal Regno Unito discende dalla seconda: loro realizzano una quota di valore aggiunto sul Pil da manifatturiero non troppo superiore alla metà del nostro, mentre noi siamo un paese che deve tentare di riportare la quota del manifatturiero oltre il 20%, per difendere l’unico vero motore attuale della crescita italiana, cioè l’export sui mercati mondiali.
Queste tre caratteristiche britanniche hanno determinato i motori della ripresa del Regno Unito. Innanzitutto il mercato domestico, la domanda interna dei consumi. Che è tornata a superare quella del precrisi, mentre da noi siamo ancora a una perdita a doppia cifra. Poi il settore immobiliare, sia delle compravendite e mutui – risaliti a quote analoghe a 9 anni fa – che nelle costruzioni, dove noi siamo a perdite del 50% rispetto al precrisi. Infine il settore finanziario, che è tornato a produrre ottimi utili e pingui bonus, e complessivamente dei servizi, a cominciare dal turismo e dall’attrattività degli investimenti diretti esteri, che per la verità è sempre rimasta altissima.
Tutto questo, per così dire, dipende dalla specificità britannica. Ma ci sono in aggiunta due fattori essenziali, sui quali dovremmo riflettere. Ad aver mantenuto un segno completamente diverso dal nostro sono state due scelte fondamentali di finanza pubblica, condivise dal premier Cameron e dal suo arcigno cancelliere dello scacchiere, George Osborne.
Fino all’inizio dell’anno scorso, le previsioni di crescita britanniche erano basse proprio per effetto di quelle due scelte. La prima: tagliare duramente la spesa pubblica. La seconda: tagliare anche le tasse, dove e nella misura del possibile, visto che nel frattempo bisognava abbassare energicamente il deficit. Una strategia che avrebbe soffocato la ripresa, dicevano non solo i laburisti di Ed Miliband, ma anche molti economisti keynesiani.
Ebbene, sono stati smentiti. E’ accaduto il contrario. Cameron e Osborne hanno ereditato nel 2010 dai laburisti un deficit pubblico superiore all’11% , nel 2010. A fine 2013 il deficit sarà intorno al 6,8%. Nel 2015, quando si rivoterà, per effetto dei nuovi tagli che il governo continua a proporre, dovrà scendere al 4% , e sotto il 3% nel 2016.
Quanto alle imposte, Osborne ha ridotto l’imposta sul reddito delle imprese dal 28% al 22%, ed entro fine mandato l’obiettivo è di scendere al 20%. L’aliquota marginale sul reddito delle persone fisiche è stata abbassata di 5 punti, dal 50% dove l’avevano riportata i laburisti. Sono state abbassate le imposte alle giovani coppie, è scesa l’accisa sulla benzina e sui consumi energetici.
E’ per tutto questo, che la domanda privata di consumi è tornata ruggente. Conclusione: per l’Italia che ha perso nove mesi sull’IMU senza ancora metterci un punto, che su ogni ipotesi di taglio alla spesa continua a delegare il commissario Cottarelli perché nessuno ha fegato e idee chiare su dove tagliare, e che ha visto aggravi d’imposta di ogni tipo, avercene sul ponte di comando, tipi come Cameron e Osborne.