C'era una volta, un giovane, ma neanche troppo, studioso di filosofia, stoica per giunta, che amava tanto passare la giornata in biblioteca a leggere gli scritti dei grandi pensatori del passato.
Il nostro amico, che si chiamava Marco, era un tipo tranquillo, metodico, meticoloso, un tipo preciso che amava fare le cose bene a prescindere che si trattasse di bollire un uovo o scrivere un trattato di matematica. Marco amava studiare, filosofeggiare e interrogarsi sui perchè e per come dell'esistenza, sull'uguaglianza di tutti gli uomini e amenità varie. Fosse stato per lui, poco incline ai vizi mondani, avrebbe passato l'esistenza in biblioteca. Un bel giorno, però, la sua vita è sconvolta dalla terribile notizia che è stato nominato erede al trono. Tutti, nella vita abbiamo anche per un solo istante desiderato essere dei sovrani, immaginando oro, donne, palazzi, fama e potere, il tanto ambito potere. Per il nostro caro Marco, invece, la notizia della sua nomina fu peggio di una tegola in testa. Ma siccome lui era un tipo preciso con un senso del dovere spiccato pensò "se ti nominano erede al trono non puoi dire di no" e, quindi, suo malgrado accettò. Ma lui era anche un buono e dicise di divedere la porpora con il frattello minore Lucio.
Lucio era l'opposto di Marco, gli piaceva godersi la vita, andare a donne, bere, fare stravizi...insomma un casinaro che, però, rimase sempre leale nei confronti di Marco che, di fatto, era quello che si sobbarcava di tutte le responsabilità che comportava l'essere sovrano. A Lucio non dispiaceva in fondo fare il sovrano di serie B e, consapevole che il fratello era ben più assennato di lui, non pensò mai di piantargli un coltello nella schiena e prendersi tutto il potere. Marco nel frattempo sgobbava peggio di uno schiavo in una miniera di rame. Vi erano leggi da promulgare, Marco le studiava. Vi erano disordini nel più profondo buco del culo dell'impero, Marco era lì. Le finanze dello stato erano allo stremo, Marco metteva all'asta le sue proprietà per fare quadrare i conti. Il popolo perdeva la casa per un incendio, Marco faceva costruire una tendopoli nei giardini del palazzo. E si amici miei, Marco era proprio un bravo ragazzo, sempre calmo, educato, gentile, non sperperava soldi in banchetti e gozzovigli vari ma, piuttosto, in mezzo al casino di migliaia sudditi che assistevano a qualche truculento spettacolo offerto dallo Stato, se ne stava in mezzo a tutto quel bordello a leggere i resoconti di qualche sperduto generale di confine. Tutti dicevano quanto è bravo Marco a non fare sentire uno schifoso suo fratello, quanto è buono Marco pronto sempre a perdonare le cazzate di Lucio e via dicendo. Un bel giorno, però, Lucio crepa d'infarto e tutti tirano un sospiro di sollievo, finalmente ci siamo liberati di sta zecca, pensava la gente. Marco, invece, è l'unico a soffrirne visto che lui voleva veramente bene al fratellino forse anche perchè così diverso da lui. E siccome piove sempre sul bagnato, scoppia una guerra tremenda di quelle sanguinose e senza fine che, per non sentirsi troppo sola, si fa accompagnare da una bella peste come Dio comanda. Marco, che non era un soldato, contro i consigli di tutta la corte, cortigiani, consiglieri e segratari vari, parte all'istante per il fronte e visto che le cose lui le fa bene, ci rimane quasi quindici anni a gonfiare di freddo insieme ai sui soldati, visto che sta benedetta guerra era nell'attuale Germania e dintorni. I suoi soldati, dal canto loro, lo amavano manco fosse stato il grande Annibale. Lo vedevano gracile, con la barba da filosofo, tutto imbabuccato ma in mezzo a loro sempre pronto ad esortarli. Addirittura, una volta, visto il ristagnare della guerra l'esercitò quasi si ribellò per i soliti motivi, la paga arretrata, le licenze, il freddo, i nemici, il rancio e tutti i vari cazzi che la guerra comporta. Marco, non appena saputo dei malumori dell'esercito, non si scompose, uscì dalla sua purpurea tenda da campo con uno sciarpone al collo e spiegò ai soldati, camminando in mezzo a loro, che lo Stato era in pericolo e che non era il momento di anteporre il proprio interesse a quello della collettività; e lo disse in un modo talmente persuasivo, deciso ed incantevole, che i militi tornarono a pugnare sentendosi in colpa per avergli fatto prendere sta botta di freddo. In fondo loro amavano questo omino barbuto, sempre assorto, che non si incazzava mai. Nel frattempo la guerra procedeva insieme alla peste che faceva vittime su vittime uccidendo più soldati dei germani. Marco, che non era da meno dei suoi uomini, si ammalò purè lui e, siccome, era uno che le cose le faceva fino in fondo, vinse la guerra e crepò di peste, così, per essere preciso.
Chi lo vorrebbe oggi il nostro Marco al posto di qualsiasi nostro politicante? Io lo vorrei, anche solo per la barba e la sciarpa.