Un giorno decido di fargli il solito scherzo. Chiamo dove lavorava (Professore al Politecnico di Torino). Mi dicono di aspettare in linea. Mi passano un altro che mi fa un giro di parole per dirmi che è meglio se chiamo direttamente la famiglia. In che senso, chiedo. Non posso dirle altro mi scusi (mi dice il tipo). Insisto. Alla fine, con voce tremante e spaventata, mi dice che è morto. Aveva un tumore alla carotide. Non mi aveva detto nulla. Ridacchio e dico guardi che c'è un equivoco: io parlo di "quella" persona, non di quella che lei dice. No, purtroppo, no, parliamo della stessa, mi dice la voce all'altro capo del telefono. Continuo a ridere, ma avverto che qualcosa sta avvenendo. Ho paura, sudano i palmi della mano. Come è possibile? In così poco tempo? e la moglie? Le figlie piccole? Tralascio il seguito, penoso, straziante, traumatico, la ricerca disperata di un'altra verità. Tralascio di descrivere il trauma (vero, psicologico) che ancora mi porto e mi porterò, aggiunto ad altri. Ognuno con il suo fardello.
Ancora oggi, ci sono dei momenti in cui piango da solo, se ripenso a questa persona cara, carissima, un fratello, sul serio. Non me ne vergogno. Mi manca, come mi mancano molti altri. Anche ora. Mentre scrivo.